martedì 29 novembre 2022

Un pensiero su Train to Busan di Yeon Sang-Ho (2016)

Il mondo del cinema è pieno film sugli zombi o sugli infetti. Sono talmente tanti che è difficile pure ad oggi quantificarli. Molti sono sono semplici film di genere che tramite lo splatter offrono un mero divertimento al pubblico, altri ancora - come ad esempio le opere di Romero - sfruttano quest'ultimo per mandare un messaggio socio politico allo spettatore. Il secondo caso riguarda Train to Busan, opera di Yeon Sang-ho uscito nei cinema coreani nel 2016.

Seok-woo è un consulente finanziario da poco separato che sembra, a causa del lavoro, avere poco tempo da dedicare alla piccola figlia, Soo-an. Un giorno la bambina esprime il desiderio che, per il proprio compleanno, possa andare a trovare la madre a Busan. Il padre, riluttante all'idea di far andare la piccola da sola, decide di accompagnarla. Una volta sul treno - un'epidemia che trasforma le persone in pericolosi infetti raggiunge il suo culmine ed i due - insieme ad altri sconosciuti, si troveranno a sopravvivere per arrivare sani e salvi a Busan, unica città che sembra essere al riparo da tale minaccia.

Prima di proseguire ricordo che questa è un'analisi di punti chiave della trama e che quindi anticipano eventi importanti. Prima di leggere questo articolo, sarebbe bene visionare prima la pellicola.

Train to Busan è un film che, come accennato nell'introduzione, sfrutta il genere per raccontare in realtà una storia ben più profonda e nasconde delle chicche interessanti. Prima di essere infatti una storia sugli infetti è una storia sulla natura e sulle relazioni umane.Non importa che vi siano eventi catastrofici o altro, anche gli eventi quotidiani possono destabilizzare la nostra normalità E' bene quindi tenere a mente che è proprio durante quest'ultima che dovremmo goderci un po' più le cose. Evitiamo una litigata senza senso, stiamo insieme alle persone a cui vogliamo bene ma soprattutto cerchiamo sempre di fare la scelta giusta quando ci si presenta l'occasione. Questo è quello che Train to Busan cerca di trasmettere ed è quello che, presi dal turbinio dalla vita moderna, non ci rendiamo conto. La pellicola in questo caso è realista, non da per scontato nulla né cerca il pessimismo ad ogni costo quanto cerca di sottolineare quanto l'altruismo è la chiave per una vita davvero degna di essere vissuta. L'esempio più eclatante è il magnate che sacrifica letteralmente tutti durante il suo percorso alla ricerca di una salvezza per poi morire in solitudine ed ucciso da colui che, durante l'avventura, ha compreso che l'altruismo permette di vivere in maniera profonda ed armoniosa. Quando quest'ultimo ci lascia - ricordandoci che essere buoni non è né una debolezza né purtroppo uno scudo invincibile- riesce però a farlo con l'immagine della figlia impressa negli occhi. Ecco quindi nascere la dicotomia fra i due personaggi necessaria a capire che non è importante sopravvivere a tutti i costi, quanto vivere avendo una buona morale e allora persino la morte non farà più paura anzi. Dimenticatevi inutili jump scare o momenti splatter, qui gli infetti fungono da catalizzatore per mettere la natura dei personaggi in mostra e, come avete potuto leggere, centra in pieno il bersaglio. Tornando a parlare del protagonista, possiamo interpretare il suo viaggio verso Busan come un percorso di redenzione e comprensione. E' molto triste vedere nei primi minuti un padre che non riesce a dialogare con la figlia né a comprenderne le esigenze ma soprattutto vivere una vita moralmente più accettabile. Il suo mestiere infatti - ricordandoci che è un consulente azionario - è quello di speculare sulle perdite altrui e di calpestare il più debole. Nella seconda scena del film lo vediamo vendere titolo azionari che potrebbero destabilizzare il mercato ma lui, incurante delle possibile conseguenze, prosegue nella vendita. Interessante notare come un suo sottoposto ad un punto del film si colpevolizza in quanto quei titoli potrebbero aver scatenato - anche se non direttamente - l'epidemia. Ecco un altro prezioso parallelismo che si palesa davanti a noi. Possiamo trovare un'analogia fra gli infetti e la classe più povera della Corea del Sud? Sì, forse Busan parla anche di questo, parla della classe dominante che, presa dai suoi affari, schiaccia il più debole fregandosene altamente di cosa potrebbe provare quest'ultima. Viviamo in un mondo estremamente capitalista che sembra andare sempre di più verso una direzione consumistica estrema. Tutto ha un prezzo ed in questo caso, persino la vita delle persone. Possiamo quindi sentire un sapore romeriano se analizziamo così l'opera. Ricordiamoci ancora le azioni del magnate. Il suo continuo e -non per niente casuale- "spingere" le persone verso gli infetti per salvarsi non è altro che spingere la classe più povera verso la rabbia della moltitudine. Lui si salva ingannando e indirizzando le persone verso la strada più pericolosa. Il suo egoismo è al limite del disgusto e la sua morte però è quanto di più tragica possa capitare. E' vero, vorremmo per soddisfare il nostro senso di giustizia, vedere quest'uomo fatto a pezzi ma quando si presenta davanti al protagonista infetto, in cerca d'aiuto e disperato per tornare dalla madre, non possiamo che provare una breve compassione. Anche le persone più disgustose hanno un'anima e questo la pellicola ci tiene a ricordarcelo. Un altro tema che ha a cuore il film è il tempo e come erroneamente molte volte lo sprechiamo rimandando. Il giovane giocatore di baseball è quasi infastidito dalla ragazza cheerleader che gli va dietro ma, durante gli eventi della pellicola comprende l'importanza che ha la ragazza nella sua vita. Il loro destino mette tristezza ma serve a ricordarci che la quantità di tempo non la decidiamo noi ed è bene quindi - ovviamente senza furia né azzardi - cogliere le occasioni che si presentano a noi. Alla fine chi sopravvive a questa tragedia? Una bambina ed una donna incinta. Non voglio premere troppo sui parallelismi rischiando di forzare un significato ma forse non sono stati scelti a caso. La speranza di un mondo migliore è in mano alla generazione che verrà perché la precedente ha dimostrato di non aver capito l'importanza del bene nel mondo. Ecco che quindi passiamo alla semplice canzone cantata dalla bambina nel finale che funge come ancora di salvezza per le due che altrimenti sarebbero rimaste uccise sotto i colpi dei militari.

Compreso che la chiave di lettura per il film è questa, passiamo al lato tecnico, forse quello di minore importanza di fronte ad una trama cosi potente ed impattante. Il regista dimostra durante tutta la pellicola di avere in mano la situazione anche durante le fasi più concitate. L'azione viene sempre seguita bene e, tenendo conto che gli attori recitano in uno spazio veramente contenuto, non era per niente facile. La macchina da presa sa indugiare sugli infetti specialmente quando quest'ultimi si muovono per attaccare e raramente quando sono fermi a non fare nulla per consegnarci una caratterizzazione di quest'ultimi veramente letale, aggressiva e rapida. Ci sono sequenze che ricorrono alla CGI e purtroppo qui notiamo che non è proprio di qualità eccellente ma, considerando tutti gli altri aspetti positivi, la considero una cosa da poco. Concludo citando l'ottimo montaggio che garantisce la film un ritmo davvero incredibile.


Gli attori dal canto loro riescono ad essere sempre convincenti, i loro personaggi sono ben delineati e non sono mai scontati. Nonostante il messaggio del film sia l'altruismo, questo non viene mai veicolato dai personaggi in maniera stucchevole risultando invece credibili ed affascinanti.

Train to Busan è un film che incoraggia la buona azione, la cooperazione fra essere umano ed alla lotta contro tutto ciò che è sbagliato e lo fa utilizzando come mezzo un "semplice" film sugli infetti. Un'ottima regia ed un cast convincente riescono ad elevare quest'opera ad alti livelli e senza ombra di dubbio questo film entra di diritto fra i migliori film sugli infetti degli ultimi anni.

lunedì 28 novembre 2022

Gli spiriti vendicativi del cinema orientale (Speciale)

Quando parliamo di Horror giapponesi, la nostra mente va automaticamente al Ringu di Hideo Nakata o al Ju-on di Takeshi Shimizu. Certo, i più esperti potrebbero anche - con giusta ragione - citare il Kwaidan di Masaki Kobayashi perciò è giusto analizzare cosa l'oriente considera "spaventoso" e come lo veicolo attraverso produzioni del genere.

La mitologia giapponese fra Kojiki e Shintoismo


Prima di tutto è bene sapere che il J-Horror - così come viene chiamato l'horror giapponese - attinge quasi sempre al folklore nipponico. Una mitologia ricca di simboli e creature che trovano origine in una delle opere più importanti giapponesi, il Kojiki. Il Kojiki - che significa letteralmente "vecchie cose scritte"- nasce in ambienti regali nell'VIII secolo ad opera di O no Yasumaro che, alla corte del sovrano Tenmu, venne redatto e consegnato circa 26 anni dopo alla nipote Genmei. L'opera narra la mitologia giapponese ed è quasi un tentativo per dare identità e lustro al paese e, in qualche modo, cementare un suo legame col divino. Nell'opera troveremo quindi i miti che faranno da pilastro portante alla cultura nipponica. Izanagi, Izanami, Amaterasu e Susanoo sono solo alcuni dei nomi degli antichi dei che affollano il Pantheon giapponese e l'opera non fa che altro che descriverci l'attività di quest'ultimi impegnati nella creazione del Giappone. Abbiamo riferimenti al confucianesimo ed al taoismo e incomincia a far capolino la religione principale del paese del Sol Levante, lo Shintoismo. Ecco che di conseguenza "compaiono" una serie di creature legate a miti o leggende che contribuiranno a rendere tanto ricca quanto affascinante la mitologia giapponese come ad esempio gli Yokai o gli Onryo. Comprendo benissimo che riassumere una argomento del genere in poche righe è quasi impossibile e mi scuso per le eventuali imprecisioni o omissioni ma questa introduzione era necessaria per portarci al prossimo argomento ed in seguito all'arte nel cinema giapponese.

Lafcadio Hearn e l'introduzione della cultura dello spettro giapponese in occidente


Lafcadio Hearn (1850 - 1904) fu un giornalista e scrittore irlandese naturalizzato giapponese che guadagnò popolarità per i suo scritti giapponesi. Un esempio è la sua opera principale ovvero "Kwaidan:Stories and Studies of Strange Things", libro in cui vi si trovano storie di Yokai ed altre leggende giapponesi. L'importanza di questi scritti è stata quella di aprire l'occidente ad una visione completamente diversa dalla loro riguardante il mondo degli spiriti ed è stato un tentativo estremamente importante in quanto non si limitava solo a questo ma anche ad offrire un'ulteriore visione di un Giappone preindustriale. Grandi scrittori ed intellettuali come George Orwell accusarono Hearn di "trans-nazionalismo" o di "esotizzazione" del Giappone ma ad oggi sappiamo per certo che senza il suo contributo sarebbe stato estremamente difficile per noi goderci oggi di uno strumento in grado di comprendere meglio il Giappone più remoto. Lo stesso Kobayashi attingerà al suo libro per la creazione del suo film citato nell'introduzione.

Abbiamo quindi la base folkloristica e uno dei più importanti divulgatori di questa materia. Ci manca ora di analizzare grazie a questi gli spiriti vendicativi del Sol Levante.


Gli Onryo, gli spiriti vendicativi


Gli Onryo sono un tipo di fantasmi (Yurei) che tornano di solito a tormentare i vivi. Le cause possono essere molteplici. Partiamo da una moglie abbandonata o uccisa fino ad una promessa infranta in punto di morte. In poche parole un essere umano che ha subito una qualche genere di ingiustizia causandogli la morte, torna per perseguitare il malcapitato. Mi rendo conto che ho semplificato molto ma allo stesso tempo di aver veicolato in maniera chiara la genesi di questa tipologia di spettri. Purtroppo molte volte accade che questo tipo di fantasmi, una volta morti, possano molte volte compiere una giustizia sommaria. E' il caso di Sadako o Kayako in cui le loro maledizioni non solo si posano sull'autore delle loro sofferenze ma anche su vittime innocenti che il caso le ha portate ad averci a che fare. Ritorniamo brevemente su Kayako. Nella pellicola la donna viene uccisa in maniera terribile dal marito infatti subisce sia la stroncatura del collo che la pugnalata a quest'ultimo che la porterà a fare il suo caratteristico verso. Lo spirito in seguito ucciderà il marito strangolandolo coi capelli ma, una volta fatto ciò, tornerà ad infestare nuovamente il luogo del suo omicidio per uccidere chiunque ci metta piede. In questo caso il sentimento rancoroso è il carburante inesauribile che porterà Kayako a vestire i panni della donna maledetta per sempre. Possiamo porci la classica domanda, è possibile mettere fine alla maledizione. In molti libri o pellicole di solito viene chiesto l'aiuto di un'esorcista ma anche lì il successo non è garantito.

Abbiamo visto quindi che promesse infrante, omicidi o altre azioni riprovevoli portano nell'horror giapponese a conseguenze disastrose di cui difficilmente la vittima può liberarsi. La negazione di questo argomento nella realtà è impossibile perché chiunque, in cuor suo, ha quella punta di superstizione che lo governa quotidianamente.





 

domenica 27 novembre 2022

Un pensiero su Old Boy di Park Chan-wook

Parlare di Old Boy dopo diciannove anni non è facile. Cosa dire che non sia già stato detto su una delle opere più impattanti di uno dei registi coreani più importanti se non cercare di dare la propria opinione su cosa ha rappresentato questo film. Ricordo di averlo noleggiato appena uscì in Italia in home video e, una volta averlo visto, di aver provato talmente tante emozioni da non saperle quantificare ma andiamo con ordine.

Oh Dae-soo è un normalissimo uomo che ad un certo punto della sua vita viene rapito da sconosciuti e tenuto sotto chiave per quindici anni. Durante questo periodo cercherà di scoprire l'identità dei suoi rapitori ma, dopo vari tentativi falliti, vi rinuncerà ed incomincerà ad ideare un piano di fuga. Per non impazzire del tutto, a causa della solitudine della prigionia, si prenderà cura del suo corpo tramite vari allenamenti e praticherà un po' di boxe. Fra un pasto di ravioli e l'altro mediterà anche la vendetta verso chi lo ha condannato a tale ingiustizia fino al giorno in cui, senza nessuna spiegazione, viene rilasciato.

Questa è in breve la sinossi del film e già da qui possiamo intravedere l'originalità del soggetto. Bisognerà però andare ancora più avanti per sviscerare il significato dell'opera e quindi, chi ancora non abbia visto questo film, dovrebbe evitare di leggere da qui in avanti.

Una volta libero Dae-soo incomincerà una caccia all'uomo. Molte sono le domande che vorrebbe fargli ma una fra tutte gli ronza particolarmente in testa, perché ha dovuto scontare una pena così dura, lui uomo dalla vita semplice? Dopo varie indagini scopre il palazzo dove gli aguzzini lo tenevano, interroga il capo ma non arriva a nulla. Viene solo a sapere che qualcuno ha pagato per far sì che lui stesse quindi anni chiuso. Nonostante i rapitori compiessero quasi giornalmente operazioni del genere, Dae-soo è l'unico che è restato cosi tanto tempo dentro. Aveva saputo tutto quello che c'era da sapere ed escluso la dubbia attività di queste persone, era chiaro che loro non c'entravano nulla. Nel frattempo fa la conoscenza di Mi-Do, una giovane cameriera in un ristorante ed istaurerà con lei una relazione. L'uomo cerca ancora di proseguire la sua ricerca e scopre che un tale Lee Woo-jin, un potente uomo d'affari, è l'artefice di tutto. Dopo altrettante vicende i due si confrontano nell'attico di Woo-Jin e quest'ultimo incomincia a raccontargli la motivazione dietro tutto ciò. Dae-soo e Woo-jin frequentavano da adolescenti lo stesso istituto scolastico quando un giorno, il nostro protagonista, vede Woo-jin e sua sorella appartati in una classe in atteggiamenti intimi. Incapace di trattenersi, Dae-soo riferì tutto ad un suo amico e, dopo qualche giorno, le voci dello strano rapporto fra fratello e sorella incominciano a fare il giro dell'istituto. La sorella, che si era convinta di essere incinta, si suicidò lanciandosi da un ponte, lasciando Woo-Jin nel dolore. Quest'ultimo una volta finito di raccontare la storia aggiunge un dettaglio ancora più raccapricciante. La figlia che tanto cercava, era in realtà la stessa Mido. Quest'ultima infatti era stata ipnotizzata a finché si innamorasse di Dae-soo, suo padre, e riuscendo quindi a far completare il piano diabolico a Woo-jin. In preda alla disperazione Dae-soo promette di essere quello che vuole per l'uomo ma lo implora di non rivelare mai la verità alla ragazza. In un impeto di disperazione arriva pure a tagliarsi la lingua stramazzando al suolo. Woo-jin fa un'ultima risata e si allontana uscendo dall'attico. Una volta in ascensore, tira fuori una pistola e si spara alla tempia. Il film si conclude con Dae-soo che osserva con occhi spenti un paesaggio innevato con accanto Mi-Do. Non si sa bene quanto sia passato ma a noi questo non importa. Rimane solo un'estrema sensazione di tristezza.

Old Boy come avete letto è un film crudele, violento e triste. In questa vicenda non esistono eroi né antagonisti quanto una serie di situazioni grottesche e molte volte inspiegabili. Riflettiamo però bene e cerchiamo di capire il film rispondendo ad alcune domande. Prima di tutto questo è il secondo film della cosiddetta trilogia della vendetta dove Park Chan-wook esplora questo tema con una minuzia incredibile. Di chi è in questo caso la vendetta? Ad una prima visione siamo ingannati nel pensare che sia Dae-soo a perseguire vendetta contro Woo-jin e, anche se alla fine, quest'ultimo rivela la verità noi siamo sempre dalla parte nel protagonista. Riflettiamo però attentamente e vediamo la cosa dal punto di vista del suo nemico.

Woo-jin prova qualcosa di più che un semplice affetto per la propria sorella e non sta a noi giudicare se questo sia giusto o sbagliato. Il desiderio che prova è anche carnale e il rifugiarsi fra il seno della sorella ci trasmette qualcosa che va al di là del semplice piacere carnale, qualcosa di più materno. Non sappiamo infatti la storia familiare di Woo-jin; magari aveva solo la sorella come punto di riferimento affettivo oppure no ma noi non potremo mai saperlo se non che, nel momento in cui muore la ragazza, qualcosa dentro il ragazzo va in pezzi, forse il cuore e forse anche la mente. Aspetterà anni prima di essere nelle condizioni giuste per poter mettere in pratica la sua vendetta contro l'uomo ritenuto colpevole di aver ucciso sua sorella. E' vero, Dae-soo materialmente non compie l'omicidio ma parla e molte volte la parola può uccidere. Ecco che la vendetta si compie in due parti. La prima è la reclusione di Dae-soo. Forse i quindici anni non sono a caso ma sono il periodo con cui Woo-jin ha dovuto avere a che fare prima della vendetta e la seconda è il rapporto che artificiosamente lo costringe con la figlia. Perché incesto non è solo fra fratello e sorella ma anche fra padre e figlia fino alla terza parte, completamente non voluta da Woo-jin dove il protagonista si taglia la lingua oramai consapevole che non quest'ultima non solo ha condannato sé ma anche Mido. Una volta che però Woo-jin ha ottenuto la sua vendetta decide di far calare il sipario sulla sua vita. Credo che quello che aveva tenuto in vita l'uomo fino ad ora non era altro che la vendetta ma una volta ottenuta il suo scopo di vita sia venuto meno. Era la vendetta incarnata, qualcosa che non poteva esistere più una volta nutrita. Woo-jin quindi era tutto ciò e non poteva più andare avanti, la sua stessa esistenza era stata costruita per quel momento. Durante la storia veniamo inoltre a sapere che l'uomo soffriva di problemi cardiaci. Non so se sia voluto o meno dal regista ma io vi ho letto un significato profondo. Il cuore è considerata la sede poetica dei nostri sentimenti e una sua malfunzione la possiamo imputare al continuo desiderio di vendetta maturato per anni e dal dolore provocato una volta morta la sorella .Per quanto riguarda Dae-soo possiamo dire che, come suggerito da Woo-jin, i due troveranno il modo di amarsi perchè in fin dei conti è quest'ultimo che importa realmente.

Park Chan-wook mette in piedi questa tragedia esistenziale e crudele con una regia, fotografia e montaggio perfetti. Il film ha un ritmo incredibile e non accenna mai a frenare. E' un continuo turbine di emozioni fino alla fine. Ci sono inquadrature degne da manuale del cinema e un piano sequenza che, per molti appassionati di cinema, è entrato di diritto nella storia di quest'ultimo. L'interpretazione degli attori è stellare e molte volte sembrerà di toccare questi personaggi da quanto sono sviluppati bene.

Old Boy è un film crudele, a tratti sadico ma anche di dotato di una profondità rara. Park Chan-wook ci consegna una storia destinata a rimanere impressa per sempre negli spettatori e firma uno dei capolavori del cinema coreano.




giovedì 24 novembre 2022

Un Pensiero su I'm a Cyborg, but that's ok di Park Chan-Wook (2006)

Il mondo di Park Chan.Wook è un mondo strano, grottesco e dalla violenza sconcertante. La sua trilogia della vendetta incarna perfettamente tutti questi aggettivi consegnandoci film dal sapore dolce amaro. Ad una prima impressione fa quindi un po' strano vedere Park Chan-Wook alle prese con una commedia romantica come I'm a Cyborg, but that's ok (I'm a Cyborg d'ora in avanti) in quanto il regista sembra allontanarsi dalla sua confort zone per consegnarci un'opera dai tratti diversi. In realtà, I'm a Cyborg è Park Chan-Wook al 100% sotto mentite spoglie.



Young-goon è una giovane ragazza che è cresciuta insieme alla nonna. Il rapporto fra i due è molto forte tanto che la ragazza soffrirà molto il giorno in cui la nonna, a causa della sua schizofrenia, verrà portata in un istituto mentale. Negli anni successivi la ragazza, mentre si trova sul posto di lavoro, si taglia le vene e vi infila dei cavi elettrici perché convinta di essere un cyborg. In realtà, questa convinzione è antecedente all'incidente ma di questo ne parlerà il film successivamente. Purtroppo però questo suo gesto la porta a finire a sua volta in un istituto mentale dove farà la conoscenza di Park Il-Soon, un cleptomane sociopatico che ha la paura di svanire. I due iniziano a instaurare un rapporto atipico che li porterà a vivere situazioni paradossali.

I'm a Cyborg si presenta apparentemente quindi come una commedia romantica leggera ma, come citato già all'inizio, in realtà questa è una maschera che il regista abilmente riesce a mettere al film. Durante infatti la prima parte l'opera si mostra diversa rispetto ai primi minuti. Incominciano a far capolino le riflessioni, i problemi esistenziali ed una forte dose di violenza. Sì, perché durante le sue allucinazioni, la protagonista immagina di fare stragi di dottori nell'istituto in quanto ritenuti da lei colpevoli di aver preso sua nonna. Ecco che dunque emerge, anche se sotto mentite spoglie, la violenza che caratterizza il regista. Vi saranno infatti momenti di puro esistenzialismo dove la protagonista si interrogherà sul suo scopo nella vita e successivamente come realizzarlo. Nel mentre il rapporto con Park Il-Soon si solidifica fino al momento in cui quest'ultimo aiuterà la ragazza a riprendere a mangiare in un modo assolutamente originale che non voglio svelare.

I'm a Cyborg riesce anche ad alternare momenti di ilarità come ad esempio le risse per futili motivi fra i pazienti a dolori ricordi che la protagonista ha della nonna. Perché se è vero che il film non dice in maniera esplicita cosa possa aver causato questa patologia nella ragazza è altresì vero che lo sussurra allo spettatore con scene molto ricercate. Prendiamo ad esempio le regole del perfetto cyborg che Young-goon segue; non avere compassione, non emozionarsi e non fantasticare sono solo alcune delle imposizioni che la protagonista fa su sé stessa. Queste regole non sono altro che il frutto di un adolescenza purtroppo malsana, vissuta in un ambiente dove non vi era una d'espressione. La madre sempre molto lontana dalla figlia - a causa dell'attività che possedeva - spingeva la figlia a non dire a nessuno che lei pensava di essere un cyborg. Ecco che quindi una normale fantasia da bambini, si trasforma in una nevrosi. Le regole citate poc'anzi sono infatti rappresentate nella sua mente con un libro di illustrazioni per bambini segno che il trauma è avvenuto in quel periodo. Risolutivo sarà la confessione che la ragazza farà alla dottoressa verso la fine del film. Per il medico infatti non c'era nessun problema ed aprirsi e, avere fiducia, è il primo passo verso la guarigione.

La guarigione che però intende questo film non è tanto la fine della nevrosi quanto accettare la natura di sé stessi - o di quello che pensiamo di essere - e di vivere nel bene e nel male la nostra vita. Il finale da questo punto di vista è quanto più di poetico Park Chan-Wook abbia scritto. Un arcobaleno appare dopo una tempesta e se con molta fantasia lo osserviamo bene ci ricorda un cavo elettrico che collega il cielo e la terra.

Alla fine del film rimarranno molte domande allo spettatore "i due ragazzi hanno trovato una felicità duratura?", "La protagonista riuscirà a "guarire"?" A noi però queste domande non ci dovrebbero interessare. Non importa aprire manuali di psicologia per comprendere che il messaggio del film è quello che in sordina viene ripetuto per tutta la pellicola "nel bene e nel male bisogna vivere".

Passando al lato tecnico cosa dire della regia di Park Chan-Wook? il regista come al solito dimostra di avere un occhio poetico incredibile, ogni scena non è mai fine a sé stessa ma comunica uno stato d'animo o veicola un messaggio da cogliere. Quando decide di zoomare, lo fa per accentuare la comicità di una situazione e quando decide di muovere a spalla la telecamera riesce sempre a stare dietro l'azione evitando di perdersi in inutili giri. La meravigliosa fotografia accentua la vena leggera ma importante dell'opera. Passiamo da dei toni accesi ma asettici come il rosso a dei delicati verdi veicolati da una grande scenografia. La messa in scena è ottima ed il montaggio, si prende i suoi tempi, rendendo il film lento ma godibile.

I'm a Cyborg è un film che tocca vette altissime. Temi come ad esempio la salute mentale e l'esistenzialismo umano sono trattati con il massimo rispetto e con quella vena ironica che non guasta mai per non appesantire l'argomento. Park Chan-Wook riesce ancora una volta a dare il meglio di sé con un'ottima regia dal sapore onirico e con una fotografia a dir poco fantastica. Una pellicola che consiglio di recuperare per riuscire ad apprezzare quanto di bello può fare il cinema. I'm a Cyborg fa star bene l'anima.


martedì 22 novembre 2022

Un Pensiero su Ju-on di Takeshi Shimizu (2000)


L'horror giapponese si distingue principalmente da quello occidentale per le tematiche che affronta dagli elementi che possiede, unici nel suo genere. Quest'ultimo infatti attinge a piene mani alla mitologia del Sol Levante rappresentata da Yokai, scintoismo e sciamanesimo. Uno dei film più rappresentativi in questi tempi moderni è sicuramente Kwaidan di Masaki Kobayashi uscito nelle sale giapponesi nel 1964 oppure, se vogliamo prodotti più recenti, Ringu di Hideo Nakata  o Ju-On di Takashi Shimizu. Dato che di Ringu ho trattato ampiamente nelle settimane scorse, vorrei ora parlare di Ju-On e di come per me abbia contribuito a creare l'archetipo della casa infestata in salsa orientale.

Come già detto poco fa, Ju-On è stato girato da Takashi Shimizu. Uscito in Giappone nel 2000, il film è stato in grado di catturare l'immaginario collettivo giapponese ed a riscuotere un discreto successo tanto che la saga conta ad oggi numerosi remake e spin-of.


La storia di Ju-On è esplorata attraverso i punti di vista di sei personaggi che per motivi volontari o involontari si troveranno ad esplorare una casa maledetta dove sembra si sia consumata una violenta tragedia. Nella cultura giapponese infatti, chi muore in maniera violenta e rancorosa, finisce per non trapassare del tutto ma rimane ad infestare il luogo della sua dipartita per un tempo che a noi non è concesso sapere. Questo tipo di spettri vengono chiamati Onryo e sono spiriti vendicativi che uccidono indiscriminatamente i vivi. I protagonisti quindi si troveranno faccia a faccia con Kayako, uno di questi spettri, e suo figlio Toshio che sembra anche lui vittima di questo destino. Una storia quindi già dalle basi crudele e triste di cui è difficile pensare ad un epilogo felice. Man mano che scopriremo il destino riservato ai protagonisti, saremo anche testimoni di importanti retroscena circa l'origine della maledizione ma, per comprendere ciò, bisognerà fare molta attenzione dato che il film ha una linea temporale tutta sua. Fra un protagonista e l'altro potrebbero passare mesi oppure anni e, anche se apprezzo questo tipo di narrazione, devo dire che qui risulta un po' confusa. Escluso questo difetto reputo Ju-On un grande film di atmosfera. Se è vero che il montaggio è lento è altresì vero che possiede un'atmosfera unica nel suo genere. I movimenti di camera sono sempre ben dosati e creano la giusta tensione ma credo che il lavoro più grande lo faccia Takako Fuji, l'attrice che interpreta Kayako. Al tempo infatti oltre ad essere attrice e doppiatrice, era anche una ballerina ed una talentuosa contorsionista, qualità che gli ha permesso di rappresentare lo spettro in maniera inquietante. I suoi infatti sono movimenti fatti di scatti nervosi e pose innaturali. Vederla mentre scende le scale è quanto più di inquietante ma anche di affascinante che si possa osservare ed il trucco che possiede dona al tutto un aspetto caratteristico.

Ju-On è un film che ha dalla sua una grande atmosfera. La storia che racconta appassiona ma allo stesso tempo potrebbe rischiare di confondere lo spettatore più disattento. La performance di Takako Fuji (Kayako) è la caratteristica che però innalza la pellicola e senza ombra di dubbio ha contribuito ha creare nel corso del tempo la figura della donna maledetta che cerca vendetta nel mondo esterno.


lunedì 21 novembre 2022

Un pensiero su Ringu 0 di Norio Tsuruta (1999)


Un pensiero su Ringu 0 di Norio Tsuruta (1999)


La saga di Ringu ha sempre posto all'attenzione dello spettatore la misteriosa Sadako in modo sottile ed implicito. Molte opere orientali, a differenza di quelle occidentali, preferiscono infatti mediare messaggi e significati attraverso silenzi ed immagini che attingono al ricco folklore che l'oriente possiede.
Ringu non è mai stato spaventoso, splatter o disgustoso, al contrario ha sempre giocato con il mistero e la natura del non visibile. Alla fine infatti del primo capitolo della serie, molte sono le domande che rimangono senza risposta. Chi è Sadako? Da dove proviene? Perché ha deciso di incarnare una natura così vendicativa e distruttiva? Le risposte non sarebbero arrivate fino al capitolo di cui parlerò oggi, Ringu 0:Birthday.

Sadako durante una performance
La storia di Ringu 0 inizia circa trenta anni prima dagli  eventi accaduti nel primo Ringu. Sadako è una ragazza  che tenta di sfuggire ad un potere oscuro che ha dentro di lei e di cui non si sa dare nessuna spiegazione. Per fare ciò decide di trasferirsi a Tokyo ed unirsi ad una compagnia teatrale con cui spera di cominciare una vita per lo meno decente. Le cose sembrano andare bene fino a quando una persona proveniente dal suo passato non compare, mandando in frantumi il delicato equilibrio raggiunto.

Sadako sta per essere gettata nel pozzo
La regia di Tsuruta è pulita e quadrata, con una fotografia ed un montaggio molto buono. Il ritmo del film infatti, pur non essendo veloce, scorre bene. I movimenti di camera sono dolci e gentili e la macchina da presa si sposta sempre molto lentamente. Non ci sono virtuosismi sul fronte tecnico ma ci troviamo di fronte ad un regista che fa bene il suo lavoro.
Per quanto riguarda la recitazione, spicca senza ombra di dubbio Yukie Nakama che riesce a creare una Sadako convincente con cui gli spettatori proveranno presto empatia . In questo film infatti Sadako viene, per motivi che preferirei non esporre in questo articolo, umanizzata e le risposte alle domande che ho esposto poco fa trovano finalmente risposta. Rispondere a quest'ultime ha richiesto però di cambiare natura alla serie. Ringu 0 infatti prima di essere un horror, è un film drammatico, un thriller a tratti anche esistenziale. La fuga di Sadako da un passato doloroso, il suo perenne tentativo di controllare una forza che non capisce, le continue ingiurie a cui è sottoposta. Tutto ciò infonde alla pellicola una tristezza ed una profondità che quasi non ci si aspetta. Credo che compiere una scelta del genere sia stata importante per dare ulteriore spessore alla serie. Alla domanda "Questo passato così drammatico di Sadako non rischia di creare una dissonanza con i primi due film?" rispondo con un sicuro "no". Anzi, penso che rivederli dopo aver visionato questo capitolo, ce li faccia godere di più. 

Sadako viene infastidita con una fotocamera
Ringu 0 è un film che non può mancare agli amanti del thriller e del mistero. Gli estimatori di Ringu troveranno senza ombra di dubbio interessante questo tassello che compone il pittoresco mosaico dell'universo di Ringu. Una regia solida ed una storia straziante completano il tutto offrendo allo spettatore un'esperienza godibile. Se vi aspettate grandi spaventi o un semplice film horror, passate oltre perché qui si parla della natura dell'uomo, delle azioni di quest'ultimo e di altri temi che difficilmente possiamo incontrare nel cinema occidentale che mira allo spavento semplice.